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Metaverso e le sfide legali nel mondo virtuale

A cura dell’avvocato Raffaella Aghemo

Prosegue il mio personale viaggio nel metaverso, per approfondire quanto le regole e le leggi che governano il mondo reale siano poi applicabili ma soprattutto applicate in quello virtuale.

Proprio in merito a questo, vorrei segnalare un bel lavoro recente a firma di Radosław Pałosz, in collaborazione con altri coautori, che pone proprio questa domanda, che è anche il titolo del suo lavoro: “How Do Base Rules Constitute a Virtual World?” (2022).

«Nell’era della crescente dipendenza dalle TIC, è importante sviluppare un quadro ontologico adeguato per discutere questioni precedentemente sconosciute. Scopo del lavoro è caratterizzare le regole costituite dal linguaggio del codice e mostrare come si discostino dalle regole istituzionali puramente sociali

E ancora l’autore sottolinea quanto segue: «Come utile rappresentazione delle relazioni tra regole di base e regole istituzionali, l’autore presenta un esempio di mondi virtuali di giochi online multiplayer di massa, che sono spazi che facilitano l’emergere di ordini sociali complessi e normativi.»

Il passo che credo apra maggiormente a riflessioni di tipo sociologico, oltre che giuridico è il seguente, che dà il via al pezzo scritto dall’autore, ovvero: « ..mostrando così come la cultura umana sia in grado di prosperare sopra i fatti digitali che funzionano come fatti fisici bruti digitali che funzionano indipendenti dall’osservatore.

È possibile, perché le regole di base vincolano il sistema che le elabora, in base al quale esse costituiscono fatti digitali piuttosto che guidare direttamente il comportamento degli utenti.»

Gli uomini, del resto, non creano solo la tecnologia, ma creano una costante interazione con essa, permeandone vita, quotidianità ed abitudini, tanto che nel paper si fa riferimento al software Habitica, che istruisce l’utente a modificare le sue abitudini tramite tecniche di gamification: in che modo?

Attraverso il metodo delle ricompense e della premialità, in un percorso nel quale l’utente si prefigge degli obiettivi, in questo caso rappresentati come mostri, che lui deve sconfiggere per arrivare alla cosiddetta “terra promessa”! 

Il metaverso, appunto, il vero Eldorado per i Big Player ma anche per aziende fortemente inserite nel virtuale, rappresenta una nuova frontiera che incentiva e alimenta giochi di massa, i cosiddetti MMOG (massive multiplayer online games), per incoraggiare le interazioni sociali fra migliaia di utenti.

Tali interazioni richiedono regole, non solo normative ma anche deontologiche, sebbene «I concetti giuridici che attualmente possediamo, tuttavia, sembrano inadeguati allo scopo di regolare adeguatamente i rapporti mediati dall’ambiente digitale.»  

L’autore volge lo sguardo ad una decina di anni fa, con l’esplosione del fenomeno di Warcraft, (Mondo di Warcraft, che aveva circa 12 milioni di abbonati al culmine della sua popolarità nel 2010) che ne faceva immaginare una forte espansione, che in realtà si è poi sopita rispetto alle previsioni dell’epoca, ma può essere un utile guida per quanto sta invece accadendo attualmente. 

Ma cosa intendiamo per “mondo virtuale”? «Edward Castronova ha inteso il termine mondo virtuale in modo molto ampio (usando l’espressione “mondo sintetico”). Secondo lui, un mondo virtuale può essere qualsiasi spazio virtuale che consente l’interazione tra umani in uno spazio creato digitalmente. Presenta una “tassonomia” dei mondi virtuali che tiene conto di tre dimensioni: il numero di giocatori in un mondo virtuale, il suo genere e la presenza di un’IA.»

Qui per Intelligenza Artificiale si intende, nel contesto dei giochi, l’insieme di regole in base alle quali il mondo virtuale reagisce ai cambiamenti introdotti dagli utenti o dai diversi elementi del mondo virtuale. 

Si distinguono tre tipi di mondi sintetici o virtuali:

  • FPS – First person shooters: sparatutto in prima persona che hanno una popolazione di giocatori ridotta, un’IA quasi inesistente o semplice, e il loro gameplay si risolve attorno al tiro per punti, lasciando poco spazio all’interazione sociale, poiché la durata è quella di una partita;
  • Social worlds: spazi persistenti progettati per consentire alle persone di socializzare in un ambiente generato digitalmente, che la comunità può modificare in modo creativo, ad esempio attraverso la creazione di nuovi oggetti, offrendo molto più spazio all’organizzazione di ambienti sociali;
  • MMORPG che sono persistenti e consentono l’interazione costante di grandi gruppi di giocatori, proprio come i mondi sociali. Tuttavia, hanno più contenuti dei mondi virtuali: missioni codificate, complessi modelli di intelligenza artificiale, informazioni di base sulla storia e le tradizioni del mondo virtuale.

«Boelstroff ha proposto quattro tratti che, nel loro insieme, mettono in evidenza le caratteristiche dei mondi virtuali. In linea di principio, i mondi virtuali:

(1) devono essere spazi all’interno della realtà virtuale, con possibilità di esplorazione, pieni di oggetti con cui interagire;

(2) dovrebbe consentire l’esplorazione e l’interazione mediate da una rappresentazione visiva di un utente, che è una parte del mondo (un avatar); 

(3) dovrebbe possedere una natura multiutente: ogni mondo virtuale è uno spazio sociale che raccoglie migliaia di utenti che consente loro di impegnarsi in varie attività sociali; 

(4) sono persistenti, il che significa che esistono anche se alcuni dei partecipanti sono disconnessi in un dato momento, il che apre la possibilità allo sviluppo di sofisticati ordini istituzionali che modellano il mondo virtuale stesso.»

Va da sé, e questo nel lavoro di Palosz è specificato molto bene, quest’ultima caratteristica della persistenza è legata alla vita di un server, se questo dovesse cessare di funzionare, anche il mondo su cui poggia cesserebbe, sebbene quanto avvenga nel mondo fittizio non rimane, a livello di esperienza e conseguenze, confinato laggiù, ma ha derive e ricadute anche nel mondo reale dell’utente: «Sia il mondo digitale che quello fisico si influenzano a vicenda, sottolineando che i confini tra i mondi non sono impenetrabili.» Castronova parla di queste interazioni attraverso l’espressione “punctures in the membrane”, forature che possono essere di tre tipologie: «mercati, politica e diritto. Quando gli oggetti virtuali hanno iniziato a guadagnare valore nel mondo reale, sono diventati rapidamente merci, acquistati e venduti con valute reali

E questo a cosa vi fa pensare se non all’attuale fenomeno degli NFT o delle valute virtuali?

E qui arriva un passo veramente interessante: «Questi conflitti si vedono meglio nell’area ampiamente discussa della cosiddetta “proprietà virtuale”. La pratica della Real Money Trading, è un buon esempio di come i sistemi legali ufficiali possano essere inefficaci se applicati a relazioni mediate da un mondo virtuale. La maggior parte dei contratti di licenza con l’utente finale (“EULA – End-User License Agreements “) vietano il trasferimento di oggetti virtuali in cambio di denaro reale. Tuttavia, il mercato dei beni virtuali è ancora molto diffuso. Dopo il crollo economico in Venezuela, molte famiglie hanno iniziato a guadagnarsi da vivere uccidendo i draghi verdi in un classico MMORPG, RuneScape. Il reddito che può essere generato dalla vendita di oggetti lasciati cadere dai draghi può anche raggiungere $ 400 al mese.»

«Per costruire una comunità di successo, le persone hanno bisogno di una grande misura di libertà.»

La sfera legale diventa nodale in questo panorama, ove la tensione tra “naturale” e “legale” diventa ancora più forte: «La tensione è probabilmente più visibile nel caso degli avatar: rappresentazioni digitali degli utenti. Se, essendo anche oggetti digitali, sono anche oggetto di diritti di proprietà intellettuale dello sviluppatore, in che misura è possibile eseguirli? Gli avatar in molti casi servono come identità alternativa dell’utente, coerente con il modo in cui vuole essere percepita dagli altri. Inoltre, può utilizzare l’immagine virtuale in contesti diversi dal mondo virtuale stesso. Poiché l’avatar è stato generato grazie al software, l’utente deve possedere una licenza specifica per utilizzarlo al di fuori del mondo virtuale?»

Allora si pone il dilemma di come considerare l’interazione fra reale e virtuale e come incasellare ciò che ne deriva all’interno di una infrastruttura che possa in qualche maniera simulare un ordine sociale e giuridico che tuteli chi ne fa parte. «Negli ultimi decenni è stato possibile distinguere due diversi approcci per descrivere l’ontologia dei mondi virtuali e la loro relazione con la realtà fisica. Innanzitutto, ispirato principalmente a Philip Brey, incentrato sulle relazioni statiche tra i diversi elementi del virtuale e del reale, è radicato nella teoria dei fatti sociali. 

La seconda prospettiva, ispirata in particolare alle opere di Don Ihde e Luciano Floridi, è radicata nella post-fenomenologia e si concentra su un processo iterativo di interazione tra uomo e tecnologia piuttosto che su parti particolari del sistema.» È quella che il Prof. Floridi definisce infosfera.

Massimo Durante sottolinea il punto importante che gli oggetti digitali non appartengono a un’altra realtà, ma dovrebbero essere trattati come parte dell’unica realtà in cui viviamo. Tuttavia, l’approccio sopra descritto non sembra essere applicabile a fini legali. Poiché la legge opera sulla definizione delle relazioni tra oggetti, è necessaria una teoria che possa descrivere determinati fenomeni come sistemi statici. Non dobbiamo confondere la capacità di plasmare la realtà in cui viviamo con l’essere soggetti di diritti legali.

Diversamente John Searle sviluppa una sua teoria basata sul fatto che gli esseri umani possiedono l’intenzionalità, che è la capacità della mente di rappresentare oggetti e stati di cose diversi da sé stessa. Searle distingue tra fatti bruti e fatti istituzionali, secondo cui i primi esistono indipendentemente dalle istituzioni umane, indipendentemente dal fatto che ci sia qualcuno che le osservi o le sperimenti, mentre i secondi esistono solo all’interno di un sistema, e solo se li percepiamo come reali all’esterno della nostra percezione, e in quanto tali, sono fatti sociali. Questa teoria si lega a quella di Philip Brey che ritiene che il mondo digitale è fatto di regole, e quelle stesse regole creano la primaria infrastruttura che regola il mondo virtuale, «regole implementate nel sistema che esegue tutti i calcoli che stanno alla base delle meccaniche di gioco, in modo che i giocatori possano concentrarsi sul seguire le regole più generali e più facili da prevedere. A questo livello, il fatto che sia il sistema a pesare gli esiti di una certa azione non cambia che l’agente cosciente decida quali azioni intraprendere, conoscendo le regole che governano il sistema. Alcune delle regole dei giochi digitali hanno un carattere normativo e mirano a guidare il comportamento dei giocatori (ad esempio, seguendo lo schema ‘se vuoi guadagnare più oro, dovresti uccidere più creature’).»

Al di là delle diverse teorie che elencano la differenza ontologica tra regola e norma («dove il primo è una norma costitutiva stessa e il secondo, un fatto deontico che la norma costituisce. Tuttavia, i fatti deontici sono solo quelli che implicano l’esistenza di doveri o obblighi. Ciò che ne consegue è che solo le norme del dovere dovrebbero essere di fatto considerate norme») appare significativa l’importanza di inquadrare in maniera universale il mondo virtuale per poterlo rinforzare con ciò che «Lessig chiama architettura, la struttura di un mondo. Gli utenti non possono influenzare le regole di base senza interferire con il codice……Questo spiega perché Lessig ha potuto applicare con successo la nozione di architettura al regno digitale. A differenza delle regole sociali, le regole di base non possono essere disobbedite. Inoltre, sebbene dipendano dall’intenzionalità umana e siano di natura istituzionale, quando impostati hanno un effetto sul sistema fintanto che viene mantenuto. La loro esistenza in corso non dipende dall’intenzionalità del gruppo, ma piuttosto dal funzionamento di un sistema in cui sono stati codificati. Come accennato in precedenza, le regole di base sono, in sostanza, regole morbide, secondo Hage.» (Esistono due tipi di vincoli: duro e morbido. La prima categoria sono quelli che sono indipendenti dalle decisioni umane, mentre la seconda categoria sono quelli che dipendono dalle decisioni umane.)

Di conseguenza, le regole fondamentali del mondo virtuale sono entrambe racchiuse in insiemi separati, ma strettamente connessi: digitale e istituzionale. A causa di questo collegamento, le regole di base possono essere modificate anche per effetto della pressione della comunità, ovvero gli utenti possono presentare petizioni per introdurre cambiamenti socio-tecnici nel gioco. «A differenza dei rigidi vincoli di un mondo reale (come le leggi della natura), le regole di base derivano da trasformazioni multiple e continue che dipendono da decisioni prese al di fuori del mondo virtuale. Tuttavia, subiscono cambiamenti e sono oggetto di così tante discussioni proprio perché all’interno del mondo virtuale agiscono come rigidi vincoli e definiscono l’esatta esperienza che gli utenti avranno dalla partecipazione a un mondo virtuale

Concludendo questo viaggio all’interno di spazi cosiddetti sintetici, appare chiaro quanto la funzione legale rappresenti la vera sfida di oggi, sfida a raccogliere le nuove esperienze che la tecnologia ci offre, e a guardare oltre per poter tutelare e difendere i diritti di chiunque decida di farne parte.

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Verità o mito?

1- Il Legal Project Management (LPM) è una metodologia adottata per migliorare l’efficienza del settore legale?

MITO. LPM non è “una” metodologia, ma una disciplina. 

In realtà nella gestione dei progetti esistono diverse metodologie, come PRINCE 2 o SCRUM, ed esistono anche buone pratiche e conoscenze condivise come il Project Management Body Of Knowledge (PMBOK), sviluppato dal Project Management Institute come corpo di conoscenze, ma non come metodologia chiusa.

Che cos’è dunque l’LPM? È un insieme di conoscenze, strumenti, tecniche e competenze che sono state sviluppate in altri settori e che cerchiamo di esportare parzialmente o totalmente nel settore legale.

Nella mia esperienza di consulente e di direttore di vari programmi LPM & LPI, fin’ora non ho visto due studi legali applicare l’LPM allo stesso modo. Gli studi che mi hanno coinvolto nell’implementazione e quelli che ho seguito dall’esterno nella loro “sperimentazione” hanno adottato gli aspetti del project management che meglio si adattavano alla loro cultura, alla loro visione, alla loro struttura e al loro capitale umano.

In alcuni casi, sono state adottate metodologie di miglioramento dei processi come Lean o Six Sigma; in altri, le best practice del PMBOK; soprattutto nel Regno Unito, è stato proposto Prince 2 e sempre più spesso si assiste ad applicazioni di gestione agile dei progetti come SCRUM o Kanban. L’LPM non è un pacchetto che si acquista all’IKEA e poi si assembla. È uno strumento organizzativo che “veste” uno studio e la supporta nella sua strategia legale e commerciale.

2- L’LPM consente di gestire lo studio in modo più efficiente?

È VERO. Ma anche un MITO. In effetti, c’è un po’ di confusione sul contenuto dell’LPM. 

La vera innovazione della LPM riguarda la gestione di un caso come se fosse un progetto, quando compie con le condizioni necessarie. IL LPI si concentra invece nella gestione di processi. La gestione dello studio come impresa è invece ciò che si suole chiamare Legal Management o, ultimamente, Legal Operations.  

È quindi opportuno distinguere tra gestione dell’ufficio o dello studio da un lato e la gestione dei progetti legali (LPM) dall’altro. Una fusione o una vendita di un’azienda, una successione internazionale, la progettazione e l’implementazione di progetti di compliance, l’elaborazione di una due diligence sono progetti tipicamenti giuridici ai quali si puó applicare l’LPM; esistono poi progetti di altra natura, per esempio commerciale, strategica, di ingenieríaingegneria di processi o di marketing a cui si possono applicare principi simili di project management. 

Tuttavia, l’affermazione alla fine risulta vera, perché la gestione più efficiente di una pratica si riflette in una gestione più efficiente e redditizia dell’organizzazione.

3- LPM è per i grandi progetti?

MITO. I progetti sono sforzi pianificati, temporanei, una tantum, volti a creare un cambiamento o un vantaggio. 

LPM è un modo di organizzare il lavoro all’interno di una struttura. Le aree di base su cui riflettiamo con l’LPM (definizione degli obiettivi, dell’ambito, dei tempi, dei costi e dei rischi) sono tipiche di qualsiasi progetto che possiamo definire tale, sia esso di piccole o grandi dimensioni.

Ció che conta é adottare un vero e proprio modo di pensare (come pianificare il lavoro), che risulta valido per qualsiasi tipo di progetto. L’unica differenza sarà nella semplicità della pianificazione: più il progetto è complesso, più capacità e risorse (umane, temporali, finanziarie) saranno necessarie per la pianificazione e l’esecuzione.

4- L’LPM è solo per i grandi studi professionali?

MITO. L’LPM è un modo di lavorare e di relazionarsi con il cliente che ha senso sia nelle grandi che nelle piccole imprese. In Spagna e in America Latina abbiamo varie esperienze di piccoli studi che hanno adottato questo approccio con risultati importanti. Forse è proprio in quelle strutture dove le risorse sono più limitate che si nota maggiormente un’ottimizzazione nel loro utilizzo e nella loro allocazione.

5- L’LPM è poco creativo: si tratta di definire e seguire processi chiusi.

Di recente ho sentito paragonare la LPM al taylorismo, e ammetto che il paragone mi ha lasciata perplessa e preoccupata. Avere un codice di riferimento procedurale non ci rende come avvocati meno creativi quando ci troviamo di fronte a un caso. Avere delle linee guida o una disciplina chiara non significa rinunciare al processo creativo. Anzi, il pensiero laterale, che ci permette di uscire dagli schemi e di abbandonare il pensiero lineare, è una delle competenze richieste a un project manager. 

L’LPM è un insieme aperto di conoscenze, strumenti, tecniche e competenze ed è nella nostra visione e nel nostro potere valutare, discriminare, confutare, creare per ottenere risultati di maggior valore per i clienti e le aziende.

6- LPM è misurabile?

VERITÀ. L’LPM incorpora metriche che ci aiutano a misurare la differenza tra il case management tradizionale e l’LPM. Tuttavia, per poter misurare il cambiamento abbiamo bisogno di dati iniziali. Se non so quante ore dedico a un M&A di complessità X utilizzando un approccio di gestione tradizionale, non sarò in grado di misurare i benefici dell’adozione del nuovo approccio (impiego meno ore?)

7- Il Legal Project Manager non è un avvocato, ma deve conoscere il contesto dello studio o l’ufficio legale.

VERITÀ. E MITO. Attualmente, vediamo come ogni studio stia scommettendo per soluzioni differenti: in alcuni casi i project manager, spesso ingegneri, guidano i team legali, mentre in altri casi gli avvocati vengono formati come project manager. Personalmente ritengo che entrambe le decisioni siano sensate, a seconda degli obiettivi che ha lo studio legale o l’ufficio. 

Se un progetto è di notevole complessità e portata, ha senso che sia guidato da un project manager. Ciò non significa che non possa essere guidato e gestito da un avvocato con un’adeguata formazione ed esperienza nella gestione dei progetti. La fusione di diritto e management apporterebbe un valore aggiunto significativo.

La formazione degli avvocati come project manager è fondamentale negli uffici o negli studi legali a struttura ridotta: in questi casi, sarebbe impensabile e ingiustificabile dal punto di vista economico avere un project manager in organico. Per rendere chiaro questo concetto, possiamo pensare a questo parallelo: per le traduzioni complesse in inglese di solito si assume un traduttore, ma è importante che l’avvocato abbia un livello avanzato di inglese per poter lavorare quotidianamente. Lo stesso vale per l’LPM: nei casi più complessi può essere necessario un professionista project manager, ma in altri casi sarebbe vantaggioso che l’avvocato stesso avesse conoscenze di project management. Detto questo e convinta che gli avvocati possono essere ottimi LPManagers, devo ammettere che al momento considero strategica e rilevante l’incorporazione nella pratica legale di altri professionisti con differente formazione. La “fertilizzazione incrociata” che i diversi profili professionali promuovono arricchirà la pratica legale e l’esercizio del diritto.

 

Concludo ricordando l’evoluzione del LPM dal 2008, quando ha iniziato a sperimentarsi specialmente in UK e USA, fino ai nostri giorni; quella che inizialmente era una scommessa per molti studi e uffici, si è trasformata in una necessità. La produttività, l’efficienza e la qualità dei servizi giuridici si basano ormai in nuove metodologie di lavoro, che si sposano perfettamente con le ultime tecnologie.

Docente Anna Marra Green

ANNA MARRA

Docente The Future Law School e Consigliera dell’International Institute of Legal Project Management (IILPM)

The Future Law School è la scuola che prepara l’avvocato del futuro, quello che sa destreggiarsi fra cyber security, big data, blockchain e tutte le novità del settore, l’avvocato che conosce il proprio valore e sa comunicarlo.